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Favola nera e bisestile.

C’era una volta una principessa. Era giovane, bella, intelligente ma era anche arrogante, dalla lingua tagliente e, peccava di orgoglio, pensando di bastare a se stessa. Una notte d’inverno, mentre dormiva nel suo letto a baldacchino, dei vermi le entrarono nell’orecchio. Era inverno e i vermi, freddolosi, si rintanarono nelle profondità del cervello. Lei, non si accorse di nulla. Aveva dei bei vestiti, la principessa, li usava per coprirsi e per andare a passeggio, nel suo castello servivano ottimi pasti e la giovane aveva molto affetto per scaldarsi il cuore. I vermi non trovavano nulla da mangiare e così iniziarono a mangiarle il cervello. Dall’esterno non si vedeva nulla ma la principessa iniziò a fare molti pensieri nefasti. Pensava che i suoi vestiti fossero fuori moda, che i suoi pasti non erano niente di speciale, che le persone che le volevano bene, poverine, non avevano di meglio da fare.Alla prima occasione non esitò a liberarsi di tutto: buttò i vestiti, perché non le piacevano molto. Buttò il cibo, perché aveva voglia di qualcosa di diverso. Se ne andò dal castello, perché non lo trovava più di suo gusto. Chiuse il telefono in faccia ai suoi amici, perché non erano come se li era immaginati.
Arrivò l’inverno. La principessa era nuda, affamata e sola.
Provò a coprirsi con le mani, ma aveva freddo. Trovò uno straccio e se lo buttò addosso, andò di casa in casa e i suoi amici le chiusero le porte, non riconoscendola così. Iniziò a mendicare. Mentre sedeva sul marciapiede osservava le scarpe delle persone, non osando guardarle negli occhi, le guance rosse di vergogna. Ogni tanto qualcuno le buttava una moneta, ma la maggior parte delle sere la passava in fila di fronte alla casa delle dame della carità.
Un giorno vide un uomo solo quanto lei: era ben vestito, però, e stava mangiando qualcosa che aveva appena acquistato. Lei si fece coraggio, si alzò e sfoderando il suo miglior sorriso, gli parlò. L’uomo, un solitario, appena la vide si innamorò. La portò a casa, la vestì, la nutrì e le regalò dei bei vestiti. Lei, gli sorrideva, con gli occhi nuvolosi e cupi come il cielo di novembre, e non era mai contenta, lui perso nel mistero del suo sguardo desiderava un sorriso e la portava nel miglior ristorante della città. Andavano al ristorante e lei osservava le coppie, che camminavano a braccetto, le vedeva ridere e baciarsi. Camminavano rapidi e non la degnavano di uno sguardo, lasciandola a riflettere su quanto aveva avuto e quanto aveva perso. Un giorno la principessa decise che si era scaldata abbastanza e che ora era abbastanza forte per camminare da sola. Uscì per strada lasciando l’uomo da solo a casa a fissare la sedia che lei aveva lasciato vuota. L’uomo si chiese perché lei non avesse mai sorriso: si diede la colpa, giudicandosi incapace di amare, rimase solo per sempre.
L’inverno non voleva finire: il vento gelido le sferzava la faccia, e dopo aver camminato per un po’ lei, che non era coraggiosa, alla vista del buio si spaventò. Andò in una piazza e si sedette su una panchina, piangendo e pensando che qualcosa sarebbe successo. Le si avvicinò un uomo: le disse che voleva offrirle un pranzo, lei si alzò, preoccupata per il suo aspetto, e lo seguì. L’uomo iniziò a camminare per la città, chiacchierando, lei si sentiva bene: per qualcuno era importante. L’uomo attraversò una strada e si diresse all’interno di un vicolo: lei lo seguì fiduciosa.
Quando entrarono nella viuzza stretta, stava calando la notte. Lui la sbatté contro un muro. Lei immobile per la paura, come un animale braccato, pensò che non aveva scampo perché era più debole fisicamente. L’uomo la prese per i capelli e le sbatte la testa contro il muro, più e più volte, finché non vide il sangue: allora la incatenò.
Stordita dal dolore, con il sangue che le colava in faccia, camminava dietro all’uomo, lo sguardo sulle pietre del selciato.
Un pensiero le attraversò il cervello: mendicare, in fondo, non era male, ce la poteva fare. Si fermò.
L’uomo tirò la catena. Lei gli sorrise, gli occhi scintillanti dietro al viso tumefatto. “Voglio venire con te, non serve che tu mi strattoni, te lo giuro, desidero camminare al tuo fianco, non dietro di te. Liberami e te lo dimostrerò”.L’uomo non era convinto ma la principessa era così bella e sottomessa e dolce che lo convinse.
Quando l’ebbe liberata lei gli camminò a fianco, come promesso, chiacchierando allegra. Camminarono fino a un ponte, il fiume gelido e grigio scorreva impetuoso. “Mio amato, aspetta, voglio osservare il fiume in inverno” mentre l’uomo si fermava, lei si buttò di sotto, un volo di trenta metri, così improvviso che lui non poté fermarla.
L’acqua la colpì come una lama nel petto, mozzandole il respiro. Alzò gli occhi: l’uomo urlava e agitava un pugno nell’aria. I vermi, scossi dall’acqua fredda, erano scivolati fuori dal cervello della principessa attraverso l’orecchio ed erano morti, congelati.

Lei ignara raggiunse la riva e si nascose nel canneto. Sola, in breve tempo imparò ad accendere il fuoco alla notte, a procurarsi il cibo, a stare nascosta. La solitudine le pesava e la schiacciava e pungeva come una vecchia coperta di lana militare. Un giorno per sovrastare il silenzio e la paura iniziò a parlare al fiume. “Fiume, sai cosa mi è successo? Avevo tutto e l’ho gettato via: sono stata stupida e non mi merito niente!” Si lamentava lei, ma era una donna solare e ogni tanto scherzava e rideva e il fiume un giorno le rispose.

“Fiume, tu parli!”

“no, il fiume non parla”

“Ma io ti sento!Mi parli” – la principessa non era sicura ma si sentiva così sola e spaventata e insistette finché scoprì che un pesce, che si era avvicinato alla riva sentendola parlare e cantare e piangere e lamentarsi, si era fermato ad ascoltare e impietosito le aveva risposto fingendosi il fiume.
Il pesce era argentato e quando la luna saliva alta nel cielo, le squame brillavano di tutti i colori dell’arcobaleno.
“Sei bello pesce,” gli diceva la principessa “Quando nessuno ti vede e solo io e la luna ti guardiamo, tu splendi come le stelle del cielo e da te escono tutti i colori dell’arcobaleno”.
Il pesce si schermiva e non ci credeva ma lei insisteva. “sei bello, pesce”.
Parlarono e parlarono e lui raccontò come si viveva da pesci nel fiume e le albe viste sotto il pelo dell’acqua e i tramonti visti dalle profondità dei fondali e raccontò delle trote e dei lucci e un giorno disse “voglio farti vedere i fondali”. Lei gli tese la mano, lui le diede una pinna e, a braccetto, ridendo, attraversarono il fiume.
Quando lei tornò sulla riva, ricominciarono a parlarsi, pianificando nuove escursioni e scorribande sul letto del fiume. Erano simili, eppure così diversi.
Lei un giorno ci pensò. “io sono una donna, voglio vivere nel mondo. Lui è un pesce, vive nel fiume”. Scacciò subito il pensiero. La mente di lei andava ancora alla sua vita prima dell’inverno, quando aveva una casa piena di luci e di affetti. Ormai era passato molto tempo e lei non sapeva più dire se aveva vissuto davvero quella vita o se se l’era solo sognata: in fondo, vivere sulla sponda di un fiume, non era così male. Aveva cibo, riparo e la compagnia del pesce.
Una notte, cullata dalla luna piena, sognò un bambino di due anni, biondo, con gli occhi azzurri, che sorrideva e la chiamava mamma. Lei si svegliò all’improvviso.
Si guardò le mani, che così spesso sognava di trasformare in branchie. Specchiò la sua immagine nel fiume: aveva desiderato diventare pesce. Ringraziò Dio che non l’aveva esaudita: era una donna, aveva già la sua fortuna, voleva provare ad avere di nuovo una casa, degli amici, un pasto caldo e dei bambini.
Lo spiegò al pesce: lui non capì. Lei versò una lacrima, enorme, argentata, con dentro mille colori.
Il pesce non la vide, perché era scappato sul fondo del fiume.
Versò un’altra lacrima: argentata, mille colori dentro.
La principessa capì che avrebbe portato il pesce e tutto quello che si erano donati per sempre con sé.
Sorrise, la donna, e iniziò a camminare, senza voltarsi indietro.
La sponda del fiume era molto lunga e lei non conosceva la strada.
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